Siamo abituati a misurare tutto, anche la vita stessa. Ciò non accade solo con gli anni che passano, le distanze dei viaggi, le temperature dei corpi, le energie in cui siamo immersi. C’è una nuova unità di misura che regna sovrana su tutte le altre: il successo. Tutto ciò che viene prima del successo è un fallimento. Questa è una delle condizioni che accompagna il crescere: non riuscire più a vedere le cose come una parte del tutto, bensì come confine tra vincere e perdere, vivere e morire. Eppure, a volte dimentichiamo che il raggiungimento di un obiettivo è esso stesso somma, differenza, prodotto e frazione di una infinità di altre misure. Una eternità di centimetri, una immensità di secondi. La vittoria di un campionato di calcio attesa da 33 anni, ad esempio, come si misura? C’è un modo per quantificare il calore di ogni abbraccio dopo un gol segnato, oppure il brivido di freddo dopo un gol subito? C’è un modo per determinare quanti chilometri sono stati fatti per seguire la propria squadra del cuore in tutti i posti del mondo? Esiste un modo per capire quanto tempo è passato tra Maradona che alza la coppa del tricolore a Napoli e Maradona che muore in Argentina? Oggi sembra ieri e domani sembrerà oggi. È qui che sta la relatività delle misure del mondo: nell’amore infinito che le rende percepibili. Alla fine, la verità è soltanto una, come cantano i Radiohead: i veri amori aspettano, non importa a quale prezzo.
All’interno di questa meravigliosa attesa, si sono succedute molteplici generazioni napoletane. Se oggi la passione azzurra è così forte, infatti, è soprattutto grazie al racconto che, nel tempo e nello spazio, è stato tramandato dai più grandi ai più piccoli. Sono i giovani di oggi quelli che un giorno, a loro volta, racconteranno del Napoli di Aurelio, Luciano, Giovanni, Viktor, Kvicha, Dries, Kalidou, Fauzi , Lorenzo, Josè, Ezequiel, Marek, Edinson, Paolo, Gianluca, Christian, Walter, German, Ignacio, Emanuele, Gianluca, Edoardo e tutti gli altri, contribuendo ad alimentare uno spirito che è fatto per bruciare per sempre e non per spegnersi lentamente.
E così, all’improvviso, i vicoli di Napoli sono pronti a festeggiare. Gli stessi vicoli dove, in un modo o nell’altro, è sempre festa, anche nella miseria e nella sfortuna. Gli stessi vicoli che sono il ventre ancora intatto e pulsante di una città sincera nelle proprie manifestazioni, nei quali per tanto tempo si canterà un’unica canzone e la luce del sole e della luna sarà filtrata dalle bellissime geometrie dei festoni e delle bandiere.
Il tutto, sotto l’ombra vigile del Vesuvio. Per tanti mesi è stata evocata la sua eruzione dalle tifoserie avversarie, al punto tale che il nefasto evento è stato assorbito dai napoletani come proprio mantra provocatorio, ironico e goliardico. Tra le tante cose che rendono un napoletano tale, il rapporto con il grande vulcano è una delle più significative, antiche e stupefacenti. “L’unica verità pe’ tutt’ quante Sarria chell’ ‘e fui’ Ma po’ addo’ jamm’”. Molta della “luccicanza” che un napoletano si porta negli occhi ovunque vada è racchiusa in questo verso: accettare la propria condizione, nel bene e nel male, e renderla una virtù da preservare e rappresentare con tutte le proprie forze e la propria creatività.
È proprio così che la Banda di Spalletti ce l’ha -quasi- fatta. Ha creduto in se stessa, nei propri valori, nella propria visione e ha progettato il proprio mondo sicuro, difficile da capire per gli altri. I napoletani di tutto il mondo hanno fatto lo stesso, costruendo i propri castelli di cielo e di sabbia dove custodire i segreti più intimi. Ormai questi sogni sono quasi realtà. Sta arrivando il momento di lasciarsi andare. Mancano le ultime impercettibili misure da andare a prendere. Quelle più difficili, ma mai come stavolta ci sarà l’aiuto di tutti, dalla sabbia dove si tengono saldi i piedi al cielo dove si tengono saldi i sogni.